Il 12 gennaio 2010 è la data che a Port-au-Prince segna un prima e un dopo. Prima miseria, povertà, violenza, colpi di stato, dopo miseria, povertà, violenza, democrazia zoppa, e milioni di dollari versati sull’isola e da questa usciti. Il terremoto che ha colpito la capitala haitiana, lascando 300.000 morti e un milione e mezzo di senza tetto è stato un gran affare per una parte della cooperazione internazionale e per un parte politica, e una grande tragedia, che si è sommata a molte altre, per il popolo haitiano.

Sono passati sei anni da quando la terra tremò, Gou­dou Gou­dou, e la situazione non è certo delle migliori, anzi.

Non molto è cambiato nell’ultimo anno. Qui raccontavo la situazione esattamente un anno fa.

Il disastro iniziò nei giorni successivi al terremoto quando la cooperazione internazionale decise di implementare la strategia dei campi profughi attraverso l’installazione di tende T-Shelter in aree lontano dalla città. Si crearono, quindi, ampie zone popolate senza servizi basici, con strutture temporali (perchè si pensava dovessero durare massimo tre mesi), lontane dalle zone in cui la gente viveva e in cui aveva relazioni famigliari, sociali ed economiche. Nei campi arrivarono oltre 1.500.000 persone. Le tende non sono pensate per resistere al clima tropicale (sono nate per le zone aride del sahara), non hanno intimità, non garantiscono sicurezza igienica.

Questo sistema fu sviluppato fino ad ottobre 2011, cioè quasi due anni dopo il terremoto. Quello che doveva essere una soluzione temporanea per massimo tre mesi, divenne la principale strategia di intervento, drenando molte risorse internazionali. La società haitiana aveva chiesto che anzichè queste costose, e fragili, strutture si intervenisse fornendo legno e lamiera alle famiglie colpite che, come han sempre fatto, si sarebbe ricostruita la propria casa. In due anni si costruirono 96.000 case temporanea, 4.600 nueve case e si ripararono solo 6.600 case delle otre 250.000 distrutte dal sisma.

Mentre il Segretario di Stato Hillary Clinton interveniva direttamente nel processo elettorale del 2011 promuovendo l’esclusione del candidato Celestin a favore del cantante Martelly (vedi qui), la popolazione, stanca della situazione dei campi, iniziò una autoricostruzione delle case, senza materiale, senza soldi e senza aiuto internazionale. Finalmente nel 2012 iniziò una politica di chiusura dei campi con il programma 16/6, ovvero spostare gli abitanti di 6 campi in 16 nuovi quartieri. Peccato che la maggior parte di questi fosse in zone ad altissimo rischio sismico.

Il sussidio per l’affitto è stato lo strumento più scelto dai beneficiari, ma senza una corretta espansione del patrimonio edilizio, ha promosso l’addensamento abitativo, in uno spazio in una stanza dove vivevano prima del terremoto 4 persone, ora ne vivono 6, si è verificato l’aumento dei prezzi di affitto, l’aumento di autocostruzione in zone ad alto rischio e l’ampliamento dell’area urbana della capitale. La precarietà in cui si sono trasferite molte delle famiglie che vivevano prima nei campi ha portato a definire che la delocalizzazione, come attuata a Port au Prince, può costituire una forma più sofisticata di sgombero forzato.

Vari studi internazionali sostengono che la capitale haitiana, dopo sei anni dal terremoto e 15 miliardi di dollari di aiuti internazionali è più impreparata ad un nuovo terremoto di come si trovava nel 2010. Cattive pratiche di costruzione, case in aree ad alto rischio, la mancanza di una rete sismica nel paese, e il processo di ricostruzione scoordinata e diretto verso soluzioni alternative lasciano, sei anni dopo, una città di variegate forme, instabile fragile, sostenuta dall’ingenio dei suoi abitanti e costruita da attori con interessi discordanti. A fine 2015 si calcola che più di 50.000 persone stiano ancora vivendo nelle residenze “temporanee”.

Gli scandali legati alla ricostruzione sono moltissimi. Quello di maggior impatto forse è stato quella della Croce Rossa statunitense. Inizialmente aveva previsto un investimento di 97 milioni di dollari per costruire 15.000 nuove case, poi ridotto nel 2013 a 59 milioni per 2.249. Allo stato attuale sono state costruite circa 900 case. Oppure il caso della fondazione Yele del popolare rapper Wyclef Jean che raccolse 16 milioni di dollari nel 2010 per spenderne 4 in spese di gestione e andare in liquidazione nel 2012.

Se vi fossero ancora dei dubbi su chi abbia tratto vantaggio dai milioni di dollari arrivati ad Haiti dopo il terremoto basta guardare questo grafico:

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Meno dell’un per cento dei soldi spesi dall’agenzia statunitense di cooperazione è stato gestito da organizzazioni i dal governo haitiano. Il resto è rimasto sotto il controllo di ONG statunitensi o direttamente di imprese private (come quelle che hanno gestito la rimozione delle macerie). I progetti finanziati sono stati, per esempio, lo studio per la creazione di un nuovo porto commerciale a nord di Haiti, costato 4 milioni e mezzo di dollari e mai consegnato.

Si dovrebbe anche parlare del colera, assente sull’isola da oltre un secolo e tornato con i caschi blu nepalesi (vedi articolo dedicato) che ancora oggi sta portando morti ad Haiti. Ricordiamoci che la prima conferenza internazionale per l’eliminazione del colera ad Haiti si è tenuta ad ottobre 2014, vuol dire 4 anni dopo la sua apparizione sull’isola. Si calcola che, con i giusti investimenti, ci vorranno 40 anni per eliminare questa malattia dall’isola.

colera

Nell’ultimo anno la situazione politica è degenerata. A gennaio Haiti si è trovata senza Parlamento dopo che è scaduto il mandato di quello in carica e che non sono state realizzate nuove elezioni. Il presidente Martelly ha deciso di proseguire governando per decreto e nominando come primo ministro (mai rettificato dal Parlamento) un personaggio coinvolto nel golpe di stato contro Aristide nel 2004: Evans Paul. Il processo elettorale, iniziato ad agosto, non si è ancora concluso e si sono registrati scontri e proteste per brogli ad ogni turno. Ad ottobre si è tenuto il primo turno per le elezioni presidenziali con oltre 50 candidati. I risultati sono stati contestati da tutti i partiti dell’opposizione e il ballottaggio tra il candidato presidenziale Moise e lo sfidante Celestin (quello già estromesso su pressione degli USA nel 2011) è stato rinviato dal 27 dicembre al prossimo 17 gennaio. I principali 8 partiti di opposizione hanno richiesto oggi la sospensione del processo elettorale e la nomina di un governo di transizione, dopo che un comitato appositamente nominato ha registrato brogli in più della metà dei seggi controllati, il report finale non è stato firmato dal rappresentante delle organizzazioni non governative, perché, a suo dire, si sarebbe dovuto procedere con il riconteggio globale delle schede.

Per capire un po’ la figura di Moise (mentre Celestin non ha ancora confermato l’intenzione di correre per il ballottaggio) basta sapere che nel 2014, ha lanciato una compagnia di espoetazioni di banane in joint venture con il governo in un terreno di circa 2.470 acri (1.000 ettari) a nord-est di Haiti, con un prestito di 6 milioni di dollari approvato dall’amministrazione Martelly. Moise si riferisce con orgoglio a se stesso con il nome di  “Neg Bannann” – Banana Man in creolo haitiano.

Nel frattempo sono avvenuti vari eventi molto discussi, tra cui l’approvazione di una legge sull’estrazione mineraria tanto cara alle multinazionali.

La situazione ambientale è il vero problema di Haiti. La deforestazione estrema ha esposto il paese ad inondazioni, uragani e frane. La cooperazione internazionale, con poche eccezioni, si è disinteressata a questa tematica non contribuendo ad uno sviluppo sostenibile del paese.

In sintesi, la situazione è ancora molto brutta, anche se i riflettori su queste terre si accendono solo il 12 gennaio, per un paio di servizi sull’anniversario del sisma, qualche foto sulla (mancata) ricostruzione e poi il nulla per un altro anno.

Per chi volesse approfondire continuo a suggerire il libro che ho curato con Helga: “Haiti: l’isola che non c’era“, IBIS edizioni. Dateci un’occhiata.

Pur in ritardo di tre giorni risptto i tempi promessi, sono arrivati oggi i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali ad Haiti.

Non si sono grandi sorprese rispetto a quanto previsto:

vanno al ballottaggio il candidato appoggiato dal presidente uscente, Jovenel Moise, e il principale candidato dell’opposizione, Jude Célestin, legato all’ex presidente Preval.

Questi i numeri diffusi dal Comitato Elettorale Provvisorio:

Jovenel Moïse (PHTK) 511,992 votes 32.81%
Jude Célestin (LAPEH) 394,390 votes 25.27%
Moïse Jean Charles (Pitit Dessaline) 222,646 votes 14.27%
Maryse Narcisse (LAVALAS) 110,049 votes 7.05%
Jean Baptiste Eric (MAS) 56,671 votes 3.63%
Jean Henry Céant (Renmen Ayiti) 39,005 votes 2.50%
Sauveur Pierre Étienne (OPL) 30,227 votes 1.94%
Ivenson Steven Benoit (Konviksyon) 17,851 votes 1.14%
Steeve Khawly (Bouclier) 16,791 votes 1.08%
Samuel Madistin (MOPOD) 13,656 votes 0.88%

Dopo l’annuncio dei risultati sono scattate le proteste dei sostenitori dei candidati esclusi, e già si registra un morto. La differenza tra il secondo e il terzo fa pensare che non vi sarà molto spazio per evenutali ricorsi. Il ballottaggio dovrebbe tenersi il 27 di dicembre. Non sono ancora stati diffusi i risultati delle elezioni legislative e comunali.

Jude Celestin aveva annunciato la sua volontà di non correre per il ballottaggio denunciando frodi e brogli da parte del Governo a favore di Moise.

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Questa storia sta diventando un caso internazionale che può rischiare di cambiare il panorama politico francese.

Tutto inizia nel marzo del 2013 quando due piloti francesi in procinto di partire con un Falcon da Punta Cana (Repubblica Dominicana) alla volta di Saint-Torpez (Francia) vengono fermati dalla polizia dominicana quando si scopre che a bordo hanno 700 kg di cocaina (per un valore commerciale di 30 milioni di euro). I due vengono condannati in agosto 2015 a 20 anni di prigione, ma, avendo chiesto l’appello, si trovano agli arresti domiciliari.

I due piloti, Pascal Fauret e Bruno Odos, però non sono rimasti tranquilli a casa in attesa del nuovo giudizio, ma, con l’aiuto di amici ex militari francesi, sono scappati in veliero fino a MArtinica per poi volare in Francia dove la polizia transalpina li ha arrestati e avviato nuove indagini. Già questo bastava per creare scompiglio in Repubblica Dominicana con l’opposizione che accusa il Governo di incapacità, se non di complicità, nella gestione della custodia.

Ora però appare una foto dei piloti in fuga verso Martinica.

Pascal Fauret e Bruno Odos, tra di loro Pierre Malinowski, secondo France TV Info

Nella foto, secondo France TV Info, ci sarebbe Pierre Malinowski, ovvero, un ex militare della Legione Straniera nonchè l’assistente parlamentare di Jean-Marie Le Pen, fondatore e presidente a vita del Frente Nacional, nonché padre dell’aspirante presidentessa Marine Le Pen.

In un comunicato Jean-Marie Le Pen afferma:

“être totalement étranger” aux péripéties de l’affaire Air Cocaïne. “Monsieur Pierre Malinowski est un assistant parlementaire européen que je partage dans le cadre d’un mi-temps avec monsieur Aymeric Chauprade, dont il est très proche. Dans ces conditions, il n’y a aucune raison valable pour que mon nom soit associé au développement de ce dossier”

Di fatto chiamandosi fuori e scaricando le eventuali colpe politiche sul collega di partito Aymeric Chauprade, anche lui a bordo del veliero utilizzato durante la fuga, e che rivendica l’idea della fuga in un’intervista.

Se tutto ciò non bastasse, nella vicenda trovano posto anche due ex presidenti:

Nikolas Sarkozy è sotto inchiesta per aver volato per tre volte con la stessa compagnia dei due piloti. La magistratura francese si sta riservando il diritto di individuare eventuali collegamenti.

Il deputato del Frente Nacional, invece, è stato in passato ospite in molte occasioni della fondazione guidata dall’ex presidente della Repubblica Dominicana, Leonel Fernandez.

electionlisty-haiti-master1050Ieri si è tenuta la seconda delle tre giornate elettorali che segnano il 2015. Ieri si votava per il primo turno del Presidente della Repubblica, il secondo turno del Parlamento e i comuni.
Una situazione già complessa di suo, ma molto più difficile da gestire se si pensa che i soli candidati alla Presidenza della Repubblica erano 54.

Risulta difficile fare il quadro completo della situazione e capire se vi sarà bisogno del ballottaggio presidenziale, che sarebbe il 27 dicembre, ma qualche notizia si può dare.

Ricordiamo che attualmente la situazione politica vede il Parlamento sciolto ad inizio anno e un Presidente, Martelly, che governa in solitaria per decreto, affiancato dal primo ministro Evans Paul, già parte del golpe di stato che pose fine alla presidenza di Aristide nel 2004. Nel 2010 le elezioni, previste per febbraio, vennero cancellate a seguito del terremoto che colpì Port-au-Prince, quando a fine anno si andò a votare, al primo turno passarono inizialmente Mirlande Manigat e Jude Célestin(delfino dell’allora presidente René Preval). Dopo proteste di alcuni settori e la “mediazione” degli Stati Uniti con l’intervento personale di Hillary Clinton, Célestin fu escluso dal ballottaggio a favore del cantante Michel Martelly che, sorprendendo tutti, triplicò i voti che aveva preso e vinse le elezioni. La presidenza di Martelly è stata segnata da scandali, da instabilità politica (5 primi ministri) e da grandi concessioni alle multinazionali straniere.

I pretendenti alla presidenza sono molti, abbiamo detto. I principali sono:

  • Jovenel Moise, produttore di una società di esportazione di banane nel nord del paese, rappresenta il Parti haitien tet kale (Partito haitiano delle teste calve) al potere, così chiamato in riferimento al celebre cranio rasato di Martelly. E’ il candidato del presidente uscente.
  • Jude Célestin, capo del partito Lapeh (Lega alternativa per il progresso e l’emancipazione di Haiti), come abbiamo detto, era il candidato di Preval nel 2010 e in precedenza era direttore di un’agenzia di costruzioni governativa molto attiva nei mesi successivi al terremoto. Nel 2010 raggiunse circa il 22% dei voti.

dopo di loro seguono molti candidati cosiddetti minori, ma che potrebbero riservare sorprese:

  • Maryse Narcisse, del partito Fanmi Lavalas, ovvero la formazione guidata da Aristide, già presidente in due occasione, entrambe terminate con un colpo di stato. Fu portavoce di Aristide durante il suo esilio forzato e attivista per i diritti umani.
  • Charles Henri Baker, del partito Regwoupman Sitwayen Pou Espwa, al terzo tentativo dopo quello del 2006 (terzo con 8,24% dei voti) e del 2010 (sesto con 2,38%)
  • Jean-Charles Moise (Platfom Pitit Desalin) uno dei senatori “dissidenti” che si rifiutò a firmare l’accordo di gennaio 2015 che avrebbe portato all’estensione del mandato del parlamento in cambio di una possibile rielezione del presidente uscente
  • Jean Henry Céant (Renmen Ayiti) un avvocato al secondo tentativo di elezione, nel 2010 arrivò quarto con l’8,18% dei voti, all’epoca era il candidato appoggiato da Fanmi Lavalas, che in quell’occasione non potè presentarsi alle elezioni.

Ad Agosto si votò per il primo turno delle elezioni legislative, inizialmente previsto in maggio. L’affluenza fu del 17,82%. Il secondo turno fu cancellato e accorpato con le elezioni presidenziali.

I dati sulle elezioni di ieri non ci sono ancora. Si parla della possibilità di avere dati parziali sul presidente intorno alla fine della prima settimana di novembre, e i definiti per la fine del prossimo mese. Tutto fa pensare che il ballottaggio presidenziale si terrà con molta difficoltà il 27 dicembre. E questo potrebbe voler dire che non si avrà un presidente eletto in tempo per gennaio 2016, quando scadrà il mandato di Martelly. Nella storia moderna di Haiti non c’è stato un presidente che abbiamo concluso il suo mandato nei tempi previsti (o interrotto prima o prolungato). Il ballottaggio sarà necessario se nessun candidato raggiunge la maggioranza assoluta dei voti o un vantaggio di 25 punti sul secondo.

La giornata di ieri è stata relativamente tranquilla. La polizia parla di 234 arresti e 13 pistole confiscate, anche se la accuse di poco trasparenza e di brogli arrivano da un po’ tutto il paese. In 8 sezioni (su poco meno di 14.000) il voto è stato annullato. Oggi le scuole sono rimaste chiuse per sicurezza.

Diversi gruppi politici, tra cui l’ex candidata alla presidenza Mirlande Manigat, avevano chiamato al boicottaggio delle elezioni ausèicando la formazione di un governo di transizione.

Aggiornamento: Jude Celestin e Jean Charles Moïse,candidati dell’opposizione, denunciano brogli 

Aggiornamento 5/11/15: mancano poche ore alla diffusione dei risultati provvisori e i candidati alla presidenza che chiedono una commissione indipendente sono 8: Sauveur Pierre Etienne, Moise Jean-Charles, Jude Celestin, Jean-Henry Ceant, Steeven Benoit, Charles Henry Baker, Eric Jean-Baptiste y Samuel Madistin. Praticamente tutti i principali candidati dell’opposizione.

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Oggi è il 21 ottobre, il giorno in cui Marty McFly arriva nel futuro in Ritorno al Futuro – parte 2.

Siti e siti si lanciano in classifiche di oggetti che gli autori del film avevano immaginato con una ventina d’anni di anticipo e che oggi esistono veramente, ma vediamo cosa, invece, abbiamo inventato e che non era stato previsto:

stivali infradito

stivali infradito

Bastone per selfie

Bastone per selfie

Stampante per toast

Stampante per toast

Acqua dietetica

Acqua dietetica

Supposta effervescente

Supposta effervescente

 

 

 

 

 

 

Ad Haiti non c’è il petrolio. Questa è una frase che spesso si sente dire per giustificare il poco interesse internazionale verso la parte occidentale dell’isola di Hispaniola.

In realtà il poco interessa riguarda soprattutto la stampa e non i paesi della regione. Qui raccontavo come l’allora segretario di stato USA Hillary Clinton avesse interferito in forma diretta durante il passato percorso elettorale (post terremoto del 2010), e in altri post provavo ad illustrare come la ricostruzione, vera o presunta, ad Haiti fosse in realtà un ottimo affare per pochi (vedi caso Felix Bautista, o ONG americane). Haiti è stata anche al centro di uno scontro Venezuela – USA sul tema dell’approvvigionamento del petrolio, come svelato da Wikileaks.

Tutto ciò va ricordato per capire cosa sta succedendo ora nell’isola.

Siamo nel pieno di un complicato processo elettorale, iniziato a gennaio con lo scioglimento del Parlamento e con la decisione del Presidente Martelly di continuare il suo mandato governando per decreto affiancato da un governo guidato dalla figura di Evans Paul, già parte del golpe di stato del 2004. Ad agosto vi sono state le prime elezioni amministrative, i cui risultati non sono ancora noti, e nei prossimi mesi vi saranno quelle legislative e presidenziali.

Proprio in questo momento di grande confusione, alcune organizzazioni haitiane denunciano il fatto che il presidente Martelly starebbe per approvare per decreto una nuova legge per regolamentare l’estrazione mineraria nel paese. Questa revisione sarebbe stata elaborata un anno fa da esperti della Banca Mondiale (ente privato che gestisce prestiti soprattutto a paesi in via di sviluppo) ma mai sottoposta all’esame del Parlamento. Uno dei punti salienti sarebbe che la rettifica degli accordi di estrazione non sarebbe più sottoposta al vaglio del Parlamento ma diventerebbe prerogativa del solo Governo. Inoltre verrebbe abolito lo studio di impatto ambientale e, soprattutto, quello di impatto sociale, sostituito da una breve relazione a carico del Ministero dell’Ambiente.

Di fatto verrebbe sottratto al dibattito pubblico la decisione di concedere nuove concessioni di estrazione.

Nella storia recente di Haiti esistono casi di comuni completamente deturpati dalle attività estrattive senza che alcun beneficio economico ricadesse sulle comunità, come a Miragoâne o a Les Gonaïves. Forse la fretta per l’approvazione di questa legge potrebbe essere dettata dal rischio di un cambio di governo e dalla vittoria di forze meno “aperte” agli interessi USA, o dalla conferma di voci che girano da un paio d’anni rispetto alla possibilità di giacimenti di uranio sull’isola.

In sostanza gli ultimi mesi del governo (senza controllo parlamentare) di Martelly, mentre l’opinione pubblica è distratta dalle elezioni, sembrano indirizzati ad aprire il paese alle multinazionali diminuendo gli strumenti di controllo e verifica. In sostanza si stanno realizzando tutti i migliori, per loro, piani dei finanziatori occulti dell’oligarchia haitiana, le aziende nordamericane che puntano a mantenere Haiti come una base economica per le loro operazioni commerciali.

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Ho parlato più volte del caso di Jozef Wesolowski, già nunzio apostolico in Repubblica Dominicana e nei caraibi, sostituito da Papa Francesco per sospetti abusi sessuali su minori dominicani. Era già stato ridotto allo stato laicale ed era agli arresti in Vaticano dopo l’inizio del processo penale.

Nella mattinata di oggi è stato trovato morto nella sua stanza, sembra per cause naturali. È stata ordinata l’autopsia.

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Domani è una data storica: comincia in Vaticano il primo processo per pedofilia dopo la riforma voluta da Jorge Bergoglio nel 2013.

Weso?owski è accusato di aver pagato dei ragazzi adolescenti per fare sesso, mentre era nunzio vaticano nella Repubblica Dominicana tra il 2008 e il 2013.

Nell’agosto del 2013 è stato richiamato in Vaticano da Jorge Bergoglio, dopo che erano stati denunciati episodi di pedofilia e di sfruttamento della prostituzione minorile da parte del sacerdote. Le accuse di pedofilia sono emerse dopo la pubblicazione di un’inchiesta della giornalista dominicana Nuria Piera (che domani trsmetterà in diretta dal Vaticano), uscita nel settembre 2013, che sosteneva che il sacerdote pagava per fare sesso con minori e frequentava una zona di Santo Domingo nota per la prostituzione minorile.

Nel 2014 il Vaticano ha sospeso l’immunità per Weso?owski, che è stato arrestato il 22 settembre 2014 ed è agli arresti domiciliari dal giugno dello stesso anno.

Weso?owski rischia 12 anni di carcere, che potrà scontare nelle prigioni vaticane o in quelle italiane. Se condannato, potrà fare appello. A giudicare Weso?owski sarà un collegio composto interamente di laici. Purtroppo però non verrà sottoposto al giudizio della giustizia dominicane, stato in cui ha commesso i delitti ma era protetto dall’immunità diplomatica.

Si tratta della prima volta in cui non viene applicato il diritto canonico ma quello penale. Questo è il vero cambiamento tra Bergoglio e il suo predecessore in tema di lotta alla pedofilia tra i religiosi. Questo processo farà giurisprudenza.

Mentre Haiti si prepara alle agognate elezioni di agosto, che dovrebbero mettere fine alla crisi istituzionale che dura da più di un anno (link) il Presidente del Consiglio Elettorale Provvisorio, Pierre Louis Opont, che nel 2010 era il Direttore Generale dell’allora consiglio elettorale, rivela ciò che portò 5 anni fa all’elezione dell’attuale presidente Martelly.

Per capire la situazione bisogna fare un salto indietro di oltre 5 anni. A gennaio del 2010 un terribile terremoto colpisce la capitale di Haiti e distrugge buona parte degli edifici pubblici e privati. Le elezioni presidenziali previste per febbraio vengono rimandate e nel paese arrivano fiumi di soldi per la cooperazione internazionale. il numero di ONG straniere si moltiplica iperbolicamente e gli USA sbarcano con i marines per portare soccorso umanitario. La missione dell’ONU Minustha, presente nel paese dal colpo di stato del 2004 che obbligò alla fuga il presidente Aristide, viene ampliata. Inizia un gioco di potere, sulla testa degli haitiani tra USA e Venezuela (e Brasile) per l’affermazione della supremazia regionale (si veda anche la questione sul petrolio svelata da Wikileaks).

In questo clima si va a votare a fine novembre 2010 (qui il mio post dell’epoca). I candidati in corsa per la presidenza sono sostanzialmente 4: Jude Célestin, a sostenuto dal Presidente uscente Preval, Mirlande Manigat, moglie di Leslie Manigat, già presidente di Haiti per pochi mesi nel 1988, Jean Henry Céant, che rivendica una continuità con l’ex presidente Aristide, molto vicino ai quartieri più popolari e Michel “Sweet Micky” Martelly cantante senza alcuna esperienza politica ma che ha fatto grandissimi investimenti durante la campagna elettorale.

Subito dopo le elezioni iniziano giorni concitati: Manigat arriva prima con circa il 31 % dei voti, dietro di lei Célestin (22,48%) e Martelly (21,84%). Al ballottaggio dovrebbero andare i primi due, ma qui scatta la protesta. Le accuse sono di brogli da parte del Governo e quindi a favore di Célestin. Per settimane i risultati non sono definitivi, vi sono dichiarazioni dall’Organizzazione degli Stati Americani e dell’ONU che chiedono la rinuncia di Célestin, le richieste dei partiti di opposizione haitiani sono di annullare le elezioni. Questa idea però non piace agli USA che vogliono una controparte politica haitiana con cui relazionarsi e gestire (in quasi totale autonomia) la ricostruzione. A posteriori sappiamo come è andata, la stragrande maggioranza dei soldi investiti per ricostruire Haiti non sono mai usciti dai confini americani rimanendo ad appannaggio delle aziende e delle ONG statunitensi, solo il 10% delle risorse è stato amministrato dal governo haitiano e meno del 3% da ONG locali.

Nel disordine di quel gennaio, il 31 arriva sull’isola Hillary Clinton, allora Segretario di Stato USA e, ricordiamolo con Bill Clinton incaricato dall’ONU per la ricostruzione ad Haiti. Insomma, era colei che aveva i soldi dalla parte del manico. Secondo la ricostruzione di Opont, la Clinton molla la crisi egiziana nel suo più alto punto di tensione (è il giorno in cui Mubarak licenzia tutto il consiglio dei ministri) per recarsi ad Haiti e sostenere le aspirazioni presidenziali di Michel Martelly. Durante la visita si riunisce con alcuni candidati alla presidenza, tra cui lo stesso Martelly, violando ciò che la Casa Bianca di Obama e il Consiglio di Sicurezza Nazionale chiama una “pratica di lunga data e principio” ovvero non essere visti con i candidati o capi di stato dei paesi stranieri durante le loro elezioni.

Nel frattempo le strade della capitale di Haiti sono percorse da manifestazioni a favore dell’inclusione di Martelly nel ballottaggio. Già all’epoca scrivevo di come quelle proteste non fossero “politiche” ma guidati da criminali, si è poi scoperto che un senatore dominicano Felix Bautista finanziò Martelly portando alla destabilizzazione del paese (Felix Bautista fece poi affari milionari con appalti assegnati alle sue imprese dal futuro presidente Martelly) appoggiandosi al delinquente Louis-Jodel Chamblain.

Morale, dopo la visita della Clinton, il 3 febbraio, il Comitato Elettorale estromise Célestin dal ballottaggio. Opont dice che, in qualità di direttore generale, dette i risultati ufficiali agli osservatori internazionali, ma che Cherly Mills, il Capo del Gabinetto del Segretario di Stato Hillary Clinton, e gli osservatori dell’Organizzazione degli Stati Americani hanno poi dato risultati diversi da quelli che erano stati loro passati.

Il resto è storia, al ballottaggio Manigat raccolse esattamente gli stessi voti del primo turno, 336.000, mentre Martelly passò magicamente da 234.000 voti a 716.000. Essendo invariato il numero di votanti, praticamente tutte le persone che al primo turno non avevano votato per Manigat al secondo votarono per Martelly. Per un uomo senza un passato politico e senza un partito serio di appoggio (il partito di Martelly riuscì a eleggere solo 3 senatori su 98) si è trattato di un miracolo politico impossibile da realizzare senza l’aiuto straniero (e dell’ex dittatore Duvalier, rientrato ad Haiti a gennaio 2011).

Gli anni del governo Martelly sono poi stati segnati da instabilità istituzionale, predominio delle ONG straniere sul controllo locale del terremoto, corruzione e sperpero di denaro fino alla crisi che nei mesi scorsi ha portato allo scoglimento del Senato e alla nomina di un ex golpista (contro Aristide) come primo ministro.

Il 25 ottobre del 2015 ci saranno le nuove elezioni presidenziali, staremo a vedere, per il momento il numero dei candidati è di 56, ma in continua evoluzione, anche perchè Martelly non potrà ricandidarsi, mentre Célestin si.

Qui il video dell’intervista con le rivelazioni di Opont.

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Beppe Grillo, in un post delirante, citando a sproposito Giovanni Falcone, elabora la teoria che i 1.000 euro, circa, che ogni migrante paga agli scafisti per venire in Italia siano pagati dalla mafia italiana.grillo 2

La teoria è questa, la mafia guadagna sui centri di accoglienza dei rifugiati (uno o due euro al giorno, dice), quindi è disposta ad investire mille euro per ognuno di loro per farli venire in Italia. E questo guadagno sarebbe superiore a quello del commercio della droga.

Il sistema non sta in piedi da nessun punto di vista, ma ipotiziamo che sia così e facciamo due conti. Ogni rifugiato frutta alla mafia circa 500 euro all’anno, quindi dovrebbe rimanere in un centro di accoglienza per almeno due anni perchè la stessa possa andare in pari. Tre anni per riuscire a raccimolare 500 euro. Ma sappiamo che i tempi di permanenza sono molto più contingentati, si parla di sei mesi rinnovabili di altri sei, molti rifugiati, poi dopo poco tentano di lasciare l’Italia per raggiungere altri paesi europei quindi sarebbe un investimento ad alto rischio e con poco profitto.

Inoltre non tutte le persone che arrivano sui barconi vengono riconosciuti come rifugiati, per loro non vi sono sistemazioni pagate dall’unione europea o dallo stato italiano, quindi nessuna possibilità di guadagno per la mafia, quindi sarebbe un investimento perso.

Ora, se una cosa la mafia sa fare sono i conti. Quale mafioso pagherebbe milioni di euro per far arrivare in Italia gli immigrati con la prospettiva, forse, di rientrare dall’investimento in tre/quattro anni?

È evidente che la teoria di Grillo non ha nessun futuro e punta solo a sostenere la sua teorica soluzione, ovvero:

“Per risolvere il problema immigrazione va prosciugato il fiume di soldi che si porta con sé.”

Detto in altri termini basta aiutare le persone che sono in fuga da guerre e da situazioni economiche insostenibili.

Le mafie italiane non hanno bisogno di importare a pagamento i migranti, li sfruttano una volta qui, dentro il sistema dei centri di accoglienza, certo, ma quello è solo una piccola parte, perchè c’è il caporalato e il lavoro nero (la camorra nel casertano dovrebbe dire qualcosa), offrendo viaggi verso gli altri paesi europei, speculando sulla loro situazione di precarietà per utilizzarli all’interno dei traffici illegali e di spaccio.

La domanda iniziale però rimane ed è interessante, ovvero, dove trovano i soldi le persone che si imbarcano per venire in Italia?

Forse il modo migliore è porre la domanda a chi quel viaggio l’ha fatto. Un ottimo documento è il lavoro di Andrea Segre “Come un uomo sulla terra“, video reportage di un’ora che racconta il viaggio dei migranti durante la vigenza degli accordi Italia-Libia.È importante ricordare che il viaggio, infatti, non inizia sulle coste libiche ma ha un antecedente di sofferenza forse tanto grande quanto la traversata del Mediterraneo. E non è un unicum, ma è fatto di traversate del deserte, di soste di mesi, di ricerca di fondi, di attese, di schiavitù, di rimpatri da un paese africano all’altro, di fallimenti e di ripartenze. Se si guarda il viaggio solo dalla prospettiva europea, ovvero, da quando delle barche lasciano le acque territoriali libiche non potremo mai capire il senso e la natura dello stesso.

Questo il racconto di un ospite della Casa della Carità di Milano, Ahmed, un uomo di mezza età in viaggio con la famiglia: “In Libia succedono cose orrende. Ci siamo stati due mesi. Insulti e e violenze, anche sulle donne. Ci tenevano in delle specie di prigioni, in una stanza come questa c’erano tre volte le persone che ci dormono ora. Speravamo nella solidarietà tra musulmani e invece le condizioni del paese erano talmente pessime che ci hanno dato il coraggio per salire sui barconi”. Molti dei quali non erano nemmeno in grado di compiere la traversata.

Ecco un altro racconto: partito dall’Eritrea, “partimmo da Asmara all’alba con un autobus di linea fino a Tessenei. Durante la strada trovammo almeno 25 posti di blocco, fortunatamente non troppo difficili da sviare. Arrivammo a Tessenei al tramonto con 2500 nakfa (100 euro) in tasca che ci servivano per affrontare il “vero” viaggio. Prima di partire ci siamo rifocillati e, indossato il vestito del popolo musulmano (jallbia) per confonderci tra loro, appena il sole fu tramontato, partimmo alla volta del deserto verso il Sudan. In Sudan sono rimasto circa un anno a lavorare per guadagnare un po’ di soldi perché quelli che avevo non bastavano a pagare il viaggio. Mi offrirono un “pacchetto viaggio” che sembrava interessante, ad un costo relativamente basso per andare da Kartoum a Tripoli. Il “pacchetto” proponeva: l’attraversamento del deserto fino a Kufra in 3 giorni al prezzo di 250 dollari e da Kufra a Tripoli al prezzo di 300 dollari. (…) Eravamo già in territorio libico. Due ore dopo il crepuscolo ci raggiunsero due macchine con due persone a bordo. Ci fecero scendere e ci dissero che per continuare il viaggio avremmo dovuto pagare altri soldi. Sia io che altri che viaggiavano con me avevamo finito i soldi che ci eravamo portati da Kartoum; alcuni nostri connazionali hanno fatto una colletta per aiutarci ma i soldi non sono bastati per tutti: 4 etiopici, purtroppo, sono rimasti al campo di Bengasi. A Tripoli affittai per un mese un appartamento insieme ad altri 12 miei connazionali al prezzo di 110 dollari in attesa della nave per l’Europa. Il proprietario dell’appartamento veniva quasi ogni giorno per informarsi se qualcuno di noi fosse pronto a partire per l’Europa, il che si traduceva nella possibilità di pagare la traversata in nave. Dopo un mese avevo ripagato i debiti del viaggio nel deserto e avevo in tasca 1200 dollari per l’altro viaggio, l’ultimo, e così gli dissi che ero pronto a partire.”

Questa un’altra testimonianza, raccolta da Elisa Pierandrei nelle coste tunisine:  “Io ho un fratello che verrà a prendermi dalla Francia. Per trovare i soldi ho chiesto aiuto ai miei parenti, ho promesso di restituire tutto appena trovo un lavoro in Italia o in Europa ”.

Altre testimonianze raccolte da studenti delle superiori:

“Mio padre è un grande, anche se non mi parla e non mi ha mai fatto una carezza sulla testa, io so che mi vuole bene, perché qualche giorno fa mi ha confidato che tra un furto e qualche lavoretto è riuscito, dopo anni, a mettere via quei maledetti soldi per pagare gli scafisti e dire addio a questa specie di vita. Da questo capii che tutti gli sforzi erano stati inutili, i soldi non erano stati abbastanza e i miei genitori erano rimasti a terra, le tariffe imposte dai trafficanti di uomini erano assurde per le nostre condizioni. I nostri genitori tennero come ricordo i bagagli preparati e lasciati a terra. (…) Io e mio fratello lavammo centinaia e centinaia di vetri fino a quando non avemmo abbastanza soldi per rintracciare i nostri genitori e offrire loro l’ opportunità di vivere assieme a noi. Purtroppo ne ricavammo solo una spiacevole notizia: non erano sopravvissuti alla guerra, entrambi erano morti in seguito ad un’esplosione.”

In sostanza in questo viaggio che dura mesi, se non anni, i migranti lavorano, si aiutano, vengono derubati, trovano il sostegno di parenti già all’estero, si prostituiscono, si ingegnano mezzi per trovare i soldi, ma sicuramente non hanno l’appoggio della mafia o di altre organizzazioni criminali per pagarsi il passaggio sui barconi, anzi le organizzazioni puntano a prendersi tutto e subito togliendo ogni volta che sia possibile qualsiasi risparmio abbiamo da parte.

Per approfondire eccoo altre storie, quelle dei 5.000 km da percorrere per arrivare in Libia e quella della traversata del mediterraneo.

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Per i sindaci e le regioni che hanno cercato di arginare il gioco d’azzardo sta per arrivare una vera e propria mazzata. Ordinanze, decreti e leggi da loro emanate decadranno entro la fine dell’anno. È quanto prevede l’ultima bozza del decreto fiscale del Governo Renzi dedicato al “riordino delle disposizioni in materia di giochi pubblici”. Dall’analisi di Redattore sociale sui 114 articoli del provvedimento, emerge un sostanziale via libera ai gestori di slot machine, agenzie di scommesse o sale gioco. Gli enti locali, in base al comma 2 dell’articolo 13, non potranno più porre “limitazioni di distanza ed orari nei riguardi dei punti di offerta di gioco”, né potranno adottare altri tipi di misure che “si risolvono in forme di sostanziale espulsione dal territorio comunale” delle sale da gioco. Dalla bozza emerge che il decreto dovrebbe entrare in vigore il 1 luglio del 2015 e gli enti locali avranno sei mesi di tempo per adeguarsi, dopodiché ogni norma contraria decadrà.

Insomma decadrebbero tutti i vincoli posti dai comuni per limitare l’accesso di minori al gioco d’azzardo come la distanza minima dalle scuole, per capirci. Non è la prima volta che i governi cedono alle pressioni delle grandi case di gioco d’azzardo, infatti già nel dicembre 2013 si era tentato di introdurre la liberalizzazione nel decreto “Salva Roma”, tentativo poi bloccato dal Capo dello Stato perché non era coerente con il decreto. E come non ricordare la cancellazione della multa ai gestori di slot inserita nel decreto IMU nell’agosto 2013?

Solo una ampia mobilitazione potrà bloccare questo nuovo scempio. La bozza deve essere cambiata.

Che riparta la campagna #noslot e facciamo pressione sui parlamentari!

noslot

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L’ultimo episodio si è registrato ieri quando, dopo che un ragazzo dominicano è stato trovato morto a Moca, un gruppo di persone, accusando dell’omicidio non meglio identificati haitiani, si è recato presso le case di alcuni haitiani per cacciarli, spaccare le case e dare fuoco ad un paio di esse. Tra le persone allontanate a spintoni e colpi di bastone anche bambini, neonati, donne alcune di loro incinta o che avevano dato alla luce solo 6 giorni prima. Un totale di oltre 300 persone.

Due video, terribili, testimoniano l`accaduto, in uno si vede addirittura la polizia che anzichè bloccare e arrestare gli aggressori, vi dialoga cordialmente.


Questi fatti, molto simili a quelli successi un paio di anni fa a Santiago, nella comunità de Los Platanitos, e si sommano a tanti episodi, all’apparenza isolati, di intolleranza e giustizia sommaria perpetrata da dominicani, per lo più ipernazionalisti, contro persone haitiane o discenti da haitiani.

Il clima è stato tutto un crescere dalla sentenza della Corte Costituzionale dominicana che ha eliminato la cittadinanza a oltre 200.000 cittadini di discendenza haitiana e che solo in piccolissima parte è stata mitigata dalle legge di naturalizzazione del governo Medina. Ormai la miccia era stata innescata e il dibattito si è spostato da quello dei diritti a quello delle illazioni. Nei media dominicani i nemici sono stati individuati nelle ONG e nella Corte Interamericana per i Diritti Umani. Le prime accusate di volere l’unificazione dell’isola in un unico stato la seconda di non difendere i diritti dei dominicani. Addirittura contro quest’ultima una nuova sentenza della Corte Costituzionale dominicani ha sancito l’uscita della stessa Repubblica Dominicana dalla Corte dei Diritti Umani.

Morale, complice anche l’avvicinarsi delle elezioni primarie per la presidenza e tutti i carichi politici (dai parlamentari ai sindaci), i discorsi contro la supposta invasione haitiana si stanno moltiplicando e le persone interpretano come una libertà d’intervento estrema, che arriva al furto dentro la casa dell’ambasciatore haitiano a Santo Domingo (compiuto da poliziotti e militari) o all‘impiccagione di un haitiano a Santiago per essersi rifiutato di partecipare all’uccisione di una persona o a tentare di contrattare un sicario latitante per uccidere dei giornalisti accusati di essere troppo filohaitiani.

Aggiornamento 10/04/15: La polizia dominicana ha arrestato 11 persone con l’accusa di aver partecipato alla rappresaglia contro gli haitiani a Moca

Questa la lettera di dimissioni che ho fatto protocollare in settimana.

Al Sindaco del comune di
Comune Cernusco sul Naviglio

pc: Assessore alla Cultura,
Presidente Consiglio Comunale,
Membri del direttivo della Consulta della Cultura
Presidente della Consulta dello Sport
Presidente della Consulta del Sociale
Ufficio Cultura e Eventi

17/02/2015

il sottoscritto Roberto Codazzi attuale presidente del Direttivo della Consulta delle Culture di Cernusco sul Naviglio comunica le proprie dimissioni dalla carica in oggetto a decorrere dalla data odierna.

Le motivazioni delle dimissioni sono state espresse in una comunicazione invita via mail al sindaco, all’assessore Zecchini, al Presidente del Consiglio Comunale e ai membri del direttivo.
I motivi di questa scelta vanno cercati nel lavoro fin qui svolto dal Direttivo della Consulta, nei punti realizzati e in quelli ancora da raggiungere. Proprio in questi giorni, preparando la relazione annuale di attività ho avuto modo di mettere in fila una serie di attività avviate o realizzate e di fare una riflessione in merito.
Nel seppur poco tempo in cui questo direttivo ha lavorato possiamo dire di aver contribuito all’avvio di un importante percorso di partecipazione come il Patto per la Scuola, aver sostenuto il lavoro dell’amministrazione nel delicato processo di definizione del regolamento per l’utilizzo degli spazi della Casa delle Associazioni, di aver svolto a pieno le responsabilità consultive sul bilancio e sulla cooperazione a cui siamo chiamati da regolamento. Oltre a ciò abbiamo riflettuto come organo sul modo in cui dobbiamo porci nei confronti dell’amministrazione e delle associazioni arrivando a definire ruoli specifici per ogni consigliere nonché avviato un processo di partecipazione lanciando, a fianco delle già esistenti iniziative come il Natale Solidale e la Festa delle Culture, anche l’idea di promuovere “i Luoghi della Cultura”. Siamo arrivati ad elaborare, con l’ufficio associazioni, un manuale operativo che dovrebbe semplificare i rapporti delle associazioni con l’amministrazione comunale.
Nell’ultima assemblea della Consulta delle Culture abbiamo presentato le proposte di modifica al regolamento della Consulta stessa che verranno sottoposte al Consiglio Comunale.
Al momento della mia candidatura alla presidenza della Consulta avevo assunto quattro impegni: accompagnare le associazioni nei nuovi spazi del Centro ex Cariplo, semplificare le relazioni tra le associazioni e l’amministrazione comunale, creare momenti che favorissero la collaborazione tra associazioni diverse e avviare un canale di comunicazione e collaborazione tra le associazioni e il gestore della Filanda. Due risultati sono vicini ad essere realizzati, un terzo è avviato mentre l’ultimo punto rimane ancora da esplorare.
Quando a giugno ho comunicato al Direttivo la scelta di vita, temporanea, che mi portava lontano da Cernusco ho chiesto ai consiglieri di valutare se il mio contributo fosse utile alle associazioni e ai lavori del direttivo anche a distanza. La risposta è stata positiva e confermata ad inizio dicembre, ed in effetti il Direttivo ha prodotto importanti passaggi a cui mi sento di aver contribuito anche da lontano.
Ora però, guardando al futuro mi rendo conto che le azioni che maggiormente richiedono gli sforzi del Direttivo, e quindi del suo presidente, si concentrano su due attività che richiedono una presenza fisica sul territorio in grado di incontrare, anche al di fuori della formalità delle riunioni, le altre realtà sociali, ovvero l’avvio dei tavoli di progettazione dei “Luoghi della Cultura” e il coinvolgimento del gestore di un importante luogo comunale come la Filanda all’interno dei lavori della Consulta. Su questi due aspetti l’assessorato e le associazioni cernuschesi hanno bisogno di un supporto che difficilmente potrei garantire attraverso i mezzi attualmente a mia disposizione. A ciò si somma la decisione personale della vice-presidente, anello forte di congiunzione con il precedente direttivo, di lasciare l’incarico a fine gennaio.
Nell’ottica quindi di rafforzare i lavori della Consulta lascio spazio a nuove energie, sperando che tra i consiglieri attualmente presenti nel Direttivo, che hanno condiviso il percorso di questi diciotto mesi, vi sia qualcuno che abbia il desiderio di assumersi l’onere di presiedere l’assemblea e accompagnarla passo passo verso la strada che insieme abbiamo tracciato e fin qui condiviso.
Colgo l’occasione per ringraziare i consiglieri che hanno permesso al Direttivo di riacquistare forza dopo un periodo di tentennamenti garantendo sempre una presenza effettiva e molto generosa. Ringrazio anche Francesca e Alessandro che hanno accettato l’ingrato compito di supportarmi nella funzione di segretari.
Lascio al Direttivo anche alcuni punti dolenti e su cui non sono stato in grado di lavorare, due su tutti l’assenza totale delle rappresentanze della Commissione Biblioteca che non ha mai partecipato alle sedute del direttivo, così come quella delle scuole (che non è nemmeno mai stata nominata), che ci ha privato di un fondamentale contributo. In secondo luogo la richiesta avanzata in più sedi di avere uno spazio sul sito comunale per la pubblicazione dei verbali del direttivo, nonchè una mail ufficiale a cui le associazioni possano scrivere per comunicare con la presidenza e i consiglieri. Queste richieste, rimaste inevase, hanno anche indebolito le possibilità di comunicazione tra il Direttivo e l’Assemblea, ma sono sicuro che riceveranno pronta risposta così da sanare la situazione di difficoltà.
Concludo ringraziando della possibilità che mi è stata data di presiedere i lavori della Consulta e di apportare una goccia al miglioramento della nostra città. Mi scuso se la situazione attuale in cui mi trovo può aver causato qualche difficoltà o rallentamento. Auguro un gran bel futuro alla Consulta tutta e rimango a disposizione, ogni volta che il nuovo presidente lo riterrà necessario, per contribuire allo sforzo collettivo.

Distinti saluti

Il Presidente
Roberto Codazzi

A Haiti s’insedia il nuovo primo ministro Evans Paul. La sua nomina, avvenuta per decreto presidenziale a dicembre, non è stata ratifica dalle Camere. Il paese è senza parlamento dopo il fallimento dei negoziati politici per prolungarne il mandato. Evans Paul è stato scelto dal presidente Michel Martelly per succedere a Laurent Lamothe, nel tentativo di calmare le proteste. Ma l’opposizione continua ad accusare Martelly di corruzione, ostruzionismo alle riforme e accentramento del potere.

Per capire chi sia il nuovo primo ministro che governerà senza parlamento per un tempo indefinito dobbiamo però tornare al 2004, anzi al 1990.

In quell’anno un ex prete, Jean-Bertrand Aristide, pur avendo deciso all’ultimo momento di partecipare alle elezioni presidenziali del dicembre del 1990, ottenne una vittoria straordinaria conquistando il 67% dei voti; in tal modo sconfisse il candidato sostenuto dagli americani, l’ex funzionario della Banca Mondiale Marc Bazin, arrivato secondo con il 14% dei consensi. Evans Paul sostiene Aristide e viene eletto Sindaco di Port-au-Prince. Il coraggioso teologo della liberazione, impegnato nella ‘opzione preferenziale per i poveri’ dei vescovi latino-americani, si insediò così nel mese di febbraio del 1991 come il primo presidente democraticamente eletto della storia haitiana, ma per poco tempo: fu rovesciato con un colpo di Stato militare il 30 settembre di quello stesso anno. Nel 1994 Clinton ricondusse ad Haiti il Presidente legittimo con un’operazione militare di grande impatto ma imponendo ad Aristide le mortali “ricette” del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che avrebbero impoverito ancora di più un Paese che era ed è il più povero dell’emisfero occidentale.

Aristide rimase Presidente meno di un anno, quando, scaduto il suo mandato, venne eletto René Preval, sempre appoggiato dal partito Lavalas. René Preval è il primo ed unico Presidente eletto ad aver condotto a termine il suo mandato e ad essere sostituito sempre a seguito di elezioni democratiche. Nel 2000 si svolsero le elezioni politiche e presidenziali e, nonostante l’insoddisfazione popolare per le riforme economiche, furono vinte dal partito Fanmi Lavalas e da Aristide (92% di consensi).  e tornò la “paura” di un personaggio che comunque non era disposto ad accettare da burattino tutte le imposizioni delle ricche potenze straniere. Già dal novembre 2000, appena dopo le elezioni, è iniziata una pesante campagna politica, economica e mediatica contro di lui e contro i membri del partito che lo sostiene: accuse di brogli elettorali, usate come scusa per attuare il  blocco degli aiuti finanziari promessi (500 milioni di dollari all’anno) anche ad opera dell’Unione Europea, campagne mediatiche su presunte violazioni dei diritti umani, con denunce da parte di organizzazioni non governative legate agli USA. Nel 2003 Aristide chiede alla Francia la restituzione di 21 miliardi di dollari pagati da Haiti allo stato europeo dopo l’indipendneza come “indennizzo”. 

Nel 2004 avviene il vero e proprio golpe (il secondo) contro Aristide. I cosiddetti “ribelli”, entrati ad Haiti dalla Repubblica Dominicana, sono paramilitari molto ben addestrati, equipaggiati e armati, ex membri del FRAPH (“squadroni della morte” responsabili di uccisioni di massa e torture durante e dopo il colpo di Stato del 1991) come Emmanuel Constant (già collaboratore della CIA) e Jodel Chamblain, oltre che a Guy Philippe, ex capo della polizia ed ex membro delle forze armate di Haiti, addestrato in Ecuador dalle forze speciali statunitensi. Il 26 febbraio il Consiglio di Sicurezza delle NAzioni Unite rigetta la richiesta di invio dei Caschi Blu avanzata dal governo haitiano. Il 29 febbraio 2004, per anticipare l’appoggio militare del Venezuela al presidente Aristide, questi viene prelevato da militari statunitensi nella notte, facendolo salire frettolosamente su un aereo con destinazione la Repubblica del Centrafrica.

In quel periodo la comunità internazionale occidentale (USA, Francia e Canada, in particolare) decidono di appoggiare una parte dell’opposizione a Aristide, quella che chiedeva la sua destituzione e che rappresentava il braccio politico della lotta armata, ovvero la “Piattaforma Democratica delle Organizzazioni della Società Civile e dei Partiti Politici d’Opposizione”, frutto dell’unione tra la “Convergenza Democratica” (DC) –un gruppo di circa 200 organizzazioni politiche guidate da Evans Paul – ed il “Gruppo delle 184 Organizzazioni della Società Civile” (G – 184). Quest’ultimo gruppo è guidato da Andy Apaid, nato negli Stati Uniti da genitori Haitiani, fedele sostenitore del colpo di stato militare del 1991 e fondatore, durante l’era Duvalier, di una delle più grandi ditte di esportazione di materiale d’assemblaggio: le industrie Alpha. Questi sweatshop (letteralmente: i laboratori del sudore, ovvero fabbriche semiclandestine dove si lavora in regime di totale sfruttamento, anche 78 ore la settimana, e senza alcuna garanzia) producono articoli tessili e assemblano materiale elettronico per alcune ditte statunitens. Apaid è il più potente datore di lavoro di tutta Haiti e possiede una forza lavoro di circa 4000 operai, retribuiti con 68 centesimi di dollaro al giorno.

E’ il paramilitare Guy Philippe che in una lunga intervista denuncia come l’opposizione “non armata” ad Aristide di Paul e Apaid fosse al corrente di ogni sua mossa, compreso l’attacco del 29 febbraio alla capitale e come siano stati loro, all’ultimo ad avvisare l’ambasciata americana perchè rapisse il presidente prima dell’arrivo in città dei “ribelli”.

Con l’arrivo delle Nazioni Unite si tenta di sbloccare la situazione creando un triumvirato al governo del paese dove, insieme al rappresentante ONU e del partito Lavalas, siede proprio Evans Paul. Nelle elezioni presidenziali del 2006, realizzate sotto il controllo delle Nazioni Unite, mentre Aristide è ancora in esilio, viene eletto nuovamente René Preval, ma Evans Paul tenta la candidatura e riceve solo il 2.5% dei voti.

Tutto ciò è necessario per capire cosa si sta muovendo ad Haiti oggi dove il presidente Martelly ha sciolto il Parlamento, per decorrenza di data, e punta a cambiare la legge elettorale per potersi ricandidare alla presidenza per altri cinque anni. La scelta di Evans Paul, navigato politico, benvisto dagli Stati Uniti, e con sufficiente esperienza per muoversi nelle acque torbide, è un segnale che non è disposto a cedere senza lottare.

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Ieri è stato sciolto il Parlamento haitiano. Dal 2012, quando sono decaduti un terzo dei senatori, non si realizzano le elezioni politiche nel paese caraibico e da oltre un anno è in corso un forte scontro tra il presidente Martelly e i partiti di opposizione sulla nuova legge elettorale.

Nella notte di domenica 11 gennaio, però, è stato firmato un accordo tra il presidente e 22 partiti (la maggior parte dei quali non esprimono parlamentari) per cercare di sbloccare la situazione, dopo i ripetuti appelli delle chiese, dell’Organizzazione degli Stati Americani e del Dipartimento di Stato USA. L’accordo prevede l‘impossibilità per il presidente di governare per decreto e la formazione di un governo di coalizione che dovrebbe portare il paese alle elezioni politiche (ma non presidenziali) entro la fine del 2015. Nel frattempo i lavori della Camera verrebbero mantenuti fino a 24 aprile e quelli del Senato fino al 9 settembre. Verrebbe costituito un Consiglio Elettorale Provvisorio di nove “saggi” indicati dalle chiese cattolica, protestante e dai membri della religione popolare del woodoo, dalla società civile, dai sindacati, dalla stampa e dall’università.

 

Tutto ciò però è ancora sulla carta perchè domenica il Parlamento non ha rettificato l’accordo e ora si aspetta ad ore, forse oggi, forse domani, una convocazione post-scioglimento, decisione che, come è evidente, si presta a mettere in dubbio la legittimità di ogni decisione che potrà essere presa in quella sede. Già, infatti, si levano parole che contestano la forma e la sostanza dell’accordo, e sono parole pesanti, ovvero quelle dell’ex candidata presidente Mirlande Manigat, sconfitta da Martelly al ballottaggio del 2011, presidente del Rassemblement des Démocrates Nationaux Progressistes, RDNP, che ha dichiarato

Oggi, di fronte alla catastrofe imminente, ho deciso di rompere il silenzio per gridare ad alta voce la mia rabbia, le mie preoccupazioni e la mia indignazione per questo omicidio programmato e annunciato di un fondamento essenziale della nostra dignità e della nostra sovranità. (…) Sono le ’11 e 55 all’orologio del paese, perché dal 12 gennaio, nessuna decisione può essere presa dalla Giunta o dal Parlamento, che sia coerente con la Costituzione. (…) Ora questo è imprescindibile, non c’è alternativa ad una decisione coraggiosa: prendere atto del fallimento della politica, la decadenza di tutte le istituzioni esecutive e legislative, e di conseguenza preparare una seria alternativa, responsabile della definizione le cose in chiaro, organizzare elezioni inclusive e non contestate, preparare una costituzione che combini il realismo funzionale e la necessità di orientamenti giuridici efficaci per prevenire gli abusi.

Gli oppositori all’accordo hanno già annunciato che continueranno la lotta e le richieste di dimissioni del presidente.

AGGIORNAMENTO: il Parlamento, convocato per la rettifica dell’accordo, non ha raggiunto il quorum, pertanto risulta sciolto e Martelly potrà governare per decreto.

Nuovi scenari, e non necessariamente positivi, si aprono per la politica ad Haiti

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Cinque anni dopo il devastante terremoto che ha colpito la capitale haitiana di Port-au-Prince il bilancio è molto più negativo che positivo. Bisogna tracciare la storia di fallimenti politici, sprechi di soldi, trasferimenti forzati della popolazione e disfatta delle soluzioni a breve termine pensate dalla grande cooperazione internazionale.

Circa 3 milioni di persone hanno perso la casa, il lavoro, relazioni amicali e la propria rete d’appoggio. Nell’arco di questi anni, però, la grande cooperazione internazionale, il più delle volte ha puntato su interventi “standard” che dovrebbero funzionare in ogni situazione di emergenza, mancando il salto che avrebbe dovuto fare, già a pochi mesi dal sisma da, appunto, l’emergenza alle politiche di sviluppo. Il risultato è che Haiti non è neanche lontanamente vicina alla situazione pre-terremoto e nessuno dei problemi che storicamente affliggono il paese caraibico è stato realmente affrontato e risolto.

Un documento fondamentale per tracciare il quadro della situazione è stato redatto da Amnesty International e si chiama “15 minuti per andarsene“, il cui titolo fa riferimento al tempo che viene concesso alle famiglie quando intervengono i piani di “spostamento forzoso” per chi vive nei campi di accoglienza.

Attualmente ad Haiti vi sono ancora 123 campi profughi attivi, che ospitano oltre 85.000 persone. Le condizioni in questi campi, dopo lo stop degli aiuti, è allarmante, circa un terzo della popolazione non ha accesso ad acqua potabile, esiste un bagno ogni 82 abitanti, non vi sono le condizioni perchè la gente lavori poichè sono ubicate in zone lontane da quelle d’origine, la violenza, soprattutto verso le donne e i bambini è a livelli altissimi. A parte i campi di sfollati, una delle zone più colpite è la grande insediamento informale di Canaan, nella periferia nord della capitale. Tra il 7 e il 10 dicembre 2013 più di 200 famiglie sono state sgomberate con la forza dal settore Canaan di Mozayik. La maggior parte delle famiglie si erano trasferiti lì dopo essere stati precedentemente sfrattati da un campo profughi nel 2012. Altri sgomberi sono verificati in Canaan nel 2014. In alcuni casi gli sgomberi forzati hanno comportato l’uso di lacrimogeni e colpi sparati in aria dalla polizia. Amnesty International ha anche registrato casi di bambini, donne incinte e persone anziane aggredite durante sgomberi forzati. Mentre il numero di sfratti forzati documentate dai campi di spostamento si è ridotto nel 2014 rispetto agli anni precedenti, il governo non riesce ancora a perseguire i responsabili di questi atti. Non è riuscito inoltre ad adottare una legislazione per vietare sgomberi forzati. Il programma di alloggi difficilmente può essere bollato come il successo. Una verifica nel 2013 ha scoperto che USAID aveva sottovalutato quanto sarebbe stato necessario per gli insediamenti, gonfiò il budget da 59 milioni dollari a 97 milioni dollari, mentre ha tagliato il suo obiettivo di 15.000 case a 2.649.

Sulla scia del disastro, i soldi e gli aiuti umanitari si riversarono nel paese. Alcuni sono andati per la creazione di programmi di sovvenzioni di affitto, che supportano gli sfollati di affittare un alloggio per un anno. Tuttavia, mentre questi programmi hanno ridotto in modo significativo il numero di campi di sfollati, non possono essere considerati come una soluzione durevole a lungo termine. Meno del 20% delle soluzioni abitative fornite potrebbe essere visto come a lungo termine, o sostenibile. Invece la maggior parte dei programmi hanno semplicemente fornito misure temporanee, per esempio la costruzione di T-shelter, che sono piccole strutture realizzate con materiali leggeri, progettati per durare solo tre a cinque anni.

La presenza internazionale dei caschi blu, già attiva dal colpo di stato che nel 2004 ha destituito il presidente Aristide, è stata prolungata fino alla fine del 2015, anche contro il parere del governo haitiano. I risultati, in alcuni casi indubbiamente positivi, della presenza dei corpi dell’ONU non deve però far dimenticare le tante ombre legate a diverse violenze denunciate e soprattutto alla questione del colera. Questa è forse l’aspetto più tragico mai registrato in un intervento umanitario. Oltre 80.000 persone sono state contagiate tra l’autunno del 2010 e il 2011 per un’epidemia di colera, malatia non presente sull’isola da oltre un secolo. Il pannel di quattro esperti nominati dall’ONU per indagare sull’origine dell’epidemia non parla di colpe dirette, ma di “una confluenza di circostanze”. Il focolaio è stato causato da “batteri introdotti in Haiti a seguito di attività umana, e più specificamente dalla contaminazione del fiume Artibonite con un ceppo patogeno del tipo South Asian Vibrio cholerae”, ovvero quello presente in Nepal. Il fiume in questione si trovava a valle dell’insediamento dei Cashi Blu nepalesi i cui sistemi fognari perdevano inquinando le acque usate dagli abitanti per lavarsi, lavare i vestiti e cucinare.

Alla fine del 2014, gli aiuti di governi, fondazioni, aziende e privati in risposta alla tragedia ha raggiunto quasi 10 miliardi dollari; con la promessa di almeno altri 6 miliardi dollari entro il 2020. Un recente rapporto del Dipartimento di Stato USA indica che un terzo dei fondi promessi per il recupero sono ancora da spendere. I più recenti dati delle Nazioni Unite dimostrano che il governo haitiano ha ricevuto dal 2012 solo 9,1 per cento dei fondi stanziati per la ricostruzione del proprio paese (582.300.000 $); mentre solo lo 0,6 % ha sostenuto ONG e imprese haitiane. In realtà, il maggior beneficiario degli aiuti terremoto di Haiti è il governo degli Stati Uniti, con USAID ricevendo contratti del valore di oltre 1 miliardo di dollari negli ultimi 5 anni. Questo è stato uno stimolo utile per le società di cooperazione di Washington ma non ha rafforzato l’occupazione ad Haiti, dove oltre il 60 % della popolazione vive ancora con meno di 1,25 dollari al giorno. Mentre non c’è dubbio che una parte della colpa per queste difficoltà può essere addebitato ai decisori haitiani, questi problemi sono stati rafforzati da un sistema di aiuto che opera attraverso regole inefficaci, procedure dispendiose e organizzazioni opache. I donatori citano i rischi di corruzione nell’incanalare denaro attraverso il governo haitiano, ma organismi di aiuto occidentali hanno raramente si sono dimostrati più efficaci o responsabile.

Poi c’è il caso preoccupante di Yele Haiti ONG fondata dall’ex cantante di Fugees il rapper haitiano Wyclef Jean, che ha preso in $ 16 milioni nel 2010 sfruttando la forza della sua immagine, e ha speso più di $ 4 milioni per le spese interne come stipendi, consulenti, viaggi, l’ufficio e le spese di magazzino .

La grande cooperazione italiana non è stata da meno. A fianco di progetti riusciti vi sono diversi casi alquanto deprecabili. Senza dove citare l’invio della portaerei Cavour voluta dall’allora Ministro La Russa che, a fronte di 10 giorni di lavoro ad Haiti, ha scelto di passare dal Brasile per promuovere gli armamenti italiani al governo sudamericano, al modico costo di 25.000 euro per ogni ora di navigazione, vale la pena ricordare i soldi destinati agli aiuti che le ONG hanno deciso di investire (e perdere) in borsa. Il consiglio direttivo di Agire (consorzio che raggruppa le 12 principali ONG di cooperazione internazionale italiane) ha deciso di affidare parte dei fondi raccolti con la campagna di SMS in attesa di erogazione a una società di intermediazione finanziaria che ha ringraziando facendo sparire 2 milioni di euro.

La situazione politica haitiana si appresta ad affrontare l’anniversario dei cinque anni del terremoto nel peggiore dei modi, con una crisi che vede opposto presidente, Martelly, ex cantante eletto dopo un contestatissimo processo elettorale, e il Senato. Proprio del 12 gennaio dovrebbe esserci lo scioglimento del Parlamento e un governo per decreti, situazione ai limiti dell’autoritarismo. L’opposizione ha annunciato giorni caldi di proteste per chiedere le dimissioni del presidente.

Sul lato sociale Haiti ha raggiunto il triste primato di “schiavi moderni”, classificandosi come secondo stato al mondo e primo nel continente. Secondo un recente rapporto circa il 2% della popolazione haitiana vive in situazione di schiavitù (approfondimento). Per non farsi mancare nulla, nel 2013 il Tribunale Costituzionale della Repubblica Dominicana, dove risiedono circa un milione di haitiani o discendenti da haitiani, ha emesso una sentenza che ha cancellato la cittadinanza dominicana a circa 200.000 persone creando una situazione di apolidia che il Governo sta cercando faticosamente di sanare.

In sintesi, la situazione è ancora molto brutta, anche se i riflettori su queste terre si accendono solo il 12 gennaio, per un paio di servizi sull’anniversario del sisma, qualche foto sulla (mancata) ricostruzione e poi il nulla per un altro anno.

Per chi volesse approfondire continuo a suggerire il libro che ho curato con Helga: “Haiti: l’isola che non c’era“, IBIS edizioni. Dateci un’occhiata.

Domenica mattina si è dimesso Laurent Lamothe, Primo ministro in carica dal 4 maggio 2012, si tratta del quarto premier (dopo Rouzier e Gousse che non hanno ottenuto la fiducia dal senato e Conille, accusato di possedere la doppia cittadinanza) dell’era Martelly.
Le dimissioni le Lamothe sono il culmine della crisi politica di cui vi avevo accennato esattamente 2 mesi fa dovuta allo scontro tra il presindente Martelly e sei senatori che rifiutano di votare la nuova legge elettorale proposta appunto dal presidente. Le dimissioni sono state richieste direttamente dal Presidente che avrebbe firmato un accordo con i partiti di opposizione per cercare di sbloccare la crisi istituzionale ed evitare di arrivare al 12 gennaio, quando scade il mandato del Parlamento, senza una legge condivisa. La scelta del prossimo premier, che potrebbe avvenire anche domani, dovrebbe indicare la direzione che Martelly vuole dare al confronto.

Le voci portano a pensare che l’incarico ricadrà su Jean Max Bellerive, co-presidente della Commissione interna per la Ricostruzione di Haiti (CIRH), stesso organo dove sedeva Lamothe prima di integrarsi al governo di Conille. Bellerive è stato primo ministro negli ultimi mesi della presidenza Preval (dal novembre 2009 al maggio 2011), quelli del terremoto di Port-au-Prince, e si era dimesso all’indomani dell’elezione di Martelly per permettergli di scegliere il proprio primo ministro.

Lamothe è stato molto vicino agli Stati Uniti e a Bill Clinton in particolare con cui ha co-presieduto il Consiglio di appoggio al presidente per lo sviluppo economico e l’investimento ad Haiti.

 

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Il 25 novembre 1960, sulla strada che collega Santiago con Puerto Plata, Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabl venivano rapite, insieme a Rufino de la Cruz, uccise e gettate in un dirupo per simulare un incidente stradale. Solo allora il tenente dell’esercito dominicano Peña Rivera informò il dittatore Trujillo: “Signore, missione compiuta”.

Murales dedicato alle Sorelle Mirabal a Salcedo

Minerva e Maria Teresa erano parte attiva del movimento di resistenza alla dittatura 14 de Junio, guidato proprio da Minerva e dal marito Manolo Tavarez Justo. Con i mariti, e con il marito di Patria, organizzavano la resistenza armanta e furono arrestate e giudicate colpevoli di sedizione nel maggio del 1960. Non era il primo arresto, già in precedenza le due donne si erano trovate nelle carceri dominicane dove erano state turturate e violate da uomini dei servizi segreti. Patria non partecipava direttamente alla lotta ma appoggiava gli sforzi delle sorelle e concedeva la sua casa per le riunioni del movimento, casa che fu incendiata dai sicari del dittatore.

Dopo l’arresto del maggio del 60, le due sorelle furono messe in libertà ad agosto e i mariti trasferiti dalla prigione di Salcedo, dove risedevano, a quella di Puerto Plata, ufficialmente per essere sottoposti ad interrogatori e a confronti con altri detenuti, ma in realtà per spingere le sorelle a percorrere le strade isolate di montagna per andarli a vedere. Il 25 novembre, nonostante il parere negativo di Dedè Mirabal, seconda sorella in ordine d’età, Patria, Minerva e Maria Teresa, che nel frattempo avevano ricominciato ad organizzare assemblee segrete del movimento 14 de junio usando sempre il loro nome in codice “MAriposas” (“Farfalle”), decisero di andare a Puerto Plata dove però li attendevano i sicari del dittatore.

L’odio di Trujillo per le sorelle, e per Minerva in particolare, non era legato solo alle sue attività clandestine ma al fatto che per ben tre volte Minerva aveva rifiutato in pubblico le sue avance. Trujillo, infatti, si comportava come padrone della nazione, e della vita di tutti i dominicani, con una particolare passione per avventure sessuali con giovani e giovanissime, fossero queste figlie di contadini o dell’alta borghesia o dei suoi ministri. L’affronto di Minerva, laureata in giurisprudenza a cui fu sempre impedito di esercitare per diretto ordine del dittatore, non fu mai perdonato da Trujillo.

Per queste ragioni, il 25 novembre è stato scelto come Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, perchè le sorelle subirono in vita, fino alla morte, quell’odio dell’uomo potente che non accetta il rifiuto e che odia molto di più quando a tenergli testa è una donna. Infatti, se fosse stato solo per un calcolo politico militare sarebbe stato molto più logico eliminare Manolo e gli altri capi della guerriglia e non le sorelle. Il dittatore volle dare un segnale ben preciso, non accettava un’insubordinazione da una donna. Quello che non calcolò è che l’omicidio delle sorelle Mirabal, con altri fattori interni ed esterni, fù uno dei fatti che accelerò la sua fine.

Nel corso di questi anni ho avuto modo di conoscere da vicino la storia delle sorelle, a partire da quegli incontri, dolci e delicati, con Dedé Mirabal, donna forte che ha cresciuto nell’amore i propri figli e quelli delle sorelle. Donna che è venuta a mancare il febbraio scorso. Oggi, tra poco, andrò all’atto di commemorazione dell’omicidio delle sorelle presso la casa museo dove vissero insieme, per proteggersi a vienda, gli ultimi mesi della loro vita.

Calamandrei, in una famosa frase diceva, “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.“, oggi andrò in pellegrinaggio in uno di quei posti segnato dalla violenza, al centro di una provincia che porta proprio il nome delle Sorelle Mirabal, a poche centinaia di metri dalla casa dove ora vivo, non per commemorare, ma per fare memoria viva e per raccogliere le energie e continuare nel lavoro che qui stiamo facendo, partendo proprio dal Centro di Attenzione alle Vittima di Violenza Domestica per il quale sto scrivendo un progetto di gestione di un fondo economico destinato alle donne maltrattate.

PS: per completare la storia, Manolo Justo Tavarez fu ucciso mentre combatteva nel 1963 contro l’invasione USA della Repubblica Dominicana che realizzò un golpe contro il governo eletto di Juan Bosh per favorire l’elezione di Joaquin Balaguer, già primo ministro di Trujillo

Pedro Veras mentre dipinge oggi un murales contro la violenza sulle donne durante l’atto alla Casa Museo

La RAI ha un bellissimo sito in cui si possono vedere le trasmissioni andate in onda, oltre che alle dirette e ai canali aggiuntivi.

Un sito molto utile per sfruttare il servizio pubblico anche al di fuori della normale tv. Peccato che la maggior parte dei contenuti non siano accessibili dall’estero!

raiOra, posso anche capire che la RAI non abbia i fondi per comprare i diritti d’autore per tutto il mondo (anche se nello specifico è la RAI a produrre il film), ma esiste un sistema semplice semplice per garantire a chi paga il canone, ma si trova momentaneamente all’estero, come nel mio caso, di poter vedere quello per cui sta pagando. Il sistema è fare il sito con accesso con LOGIN per chi sta all’estero, dove il LOGIN è legato proprio all’inserimento dei dati del pagamento del canone tv.

Cosa ci vuole? Pochi investimenti che permetterebbero ai milioni di italiani all’estero di avere un servizio molto migliore di quello promosso oggi dove la RAI propone soltanto un canale nei pacchetti di tv via cavo dei vari paesi, ovvero RAI Italia, dove, incurante dei fusi orari locali, vanno in onda solo programmi dell’ordine di “Varietà”, “Un posto al sole”, “Affari tupi”, “Made in sud” e “La prova del cuoco”… oppure, mandano Report alle 23.30 di notte…

Ecco, sono ben contento se si pagherà il canone con la bolletta elettrica, però vorrei che la RAI estendesse i servizi anche a noi che stiamo fuori dall’Italia.

 

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La fondazione The Walk Free ha redatto un importante documento, che invito a leggere per esteso (lo trovate qui), sulle moderne schiavitù nel mondo.

Guardandolo mi è subito saltato agli occhi il dato di un paese che conosco molto bene, ovvero Haiti. Questi si trova al terzo posto nella triste classifica mondiale sulle schiavitù dopo Mauritania e Uzbekistan per la percentuale di popolazione che vive in questo stato.

La fondazione definisce così le nuove schiavitù:

Modern slavery is a hidden crime. It takes many forms, and is known by many names: slavery, forced labour, or human trafficking. All forms involve one person depriving another person of their freedom: their freedom to leave one job for another, their freedom to leave one workplace for another, their freedom to control their own body. Modern slavery involves one person possessing or controlling a person in such as a way as to significantly deprive that person of their individual liberty, with the intention of exploiting that person through their use, management, profit, transfer or disposal.

In particolare vi sono tre ambiti:

  • il traffico di persone: Per mezzo di minaccia o l’uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, l’abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra persona
  • la schiavitù propriamente detta: Lo stato o la condizione di un individuo sul quale uno o tutti i poteri inerenti al diritto di proprietà sono esercitati.
  • il lavoro forzato: Tutto il lavoro o il servizio estorto a una persona sotto la minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente

Il dato di Haiti è impressionante, su una popolazione di 10 milioni di abitanti, oltre 230.000 sono considerati come schiavi moderni, cona percentuale del 2,3%. Per capire la gravità basta fare il raffronto con la vicina Repubblica Dominicana che avendo una popolazione pressochè uguale ha “solo” 18.000 schiavi, pari allo 0,18%. L’Italia ne conta 11,400 ma con una popolazione sei volte più grande (0,02%).

Il fenomeno che colpisce maggiormente Haiti è quello dei bambini restavék, ovvero  bambini di Haiti che vivono in una famiglia diversa dalla loro famiglia di origine. In genere provengono da famiglie povere delle zone rurali di Haiti, i genitori dei quali, non potendosi permettere di mantenerli, li mandano a lavorare presso famiglie residenti in città.  Vivono spesso un’effettiva condizione di schiavitù, vittime di abusi di ogni genere: devono dormire sul pavimento senza nessun tipo di materasso, solo con una stuoia; non possono andare a scuola o, al massimo, possono farlo la sera di riposo, stando sempre vicino al ‘padrone’, nel caso dovesse avere bisogno; sono sottoposti regolarmente a violenza fisica e sessuale. I restavék non sono autorizzati a parlare, se non quando devono rispondere ai padroni e la maggior parte di essi soffre di malnutrizione. Non hanno contatti con i genitori d’origine. La schiavitù dei restavék comincia dai 3-5 anni e ha una durata precisa: da una parte, i maschi restavék restano con la famiglia ospitante fino all’adolescenza, le femmine restano dalla famiglia ospitante fino alla gravidanza, per poi sperare di trovare un lavoro qualsiasi per sopravvivere da sole col bambino.

Bambini haitiani sono anche vulnerabili rispetto al traffico attraverso il confine con la Repubblica Dominicana dove si trovano a fare lavori domestici, il lavoro minorile e sfruttamento sessuale commerciale.  I bambini di strada, spesso in fuga o restavèks espulsi, sono vulnerabili nei confronti del crimine di strada o delle gangs.

Anche se i bambini costituiscono la maggioranza delle vittime della moderna schiavitù ad Haiti, sono state individuate anche vittime adulte in lavori forzati in agricoltura, nell’edilizia e nella prostituzione forzata all’interno di
Haiti, in Repubblica Dominicana, in altri paesi dei Caraibi, negli Stati Uniti, e in tutto il Sud America. Le donne che vivono nelle tendopoli degli sfollati, ancora esistenti quattro anni dopo il terremoto del gennaio 2010, sono vulnerabili allo sfruttamento sessuale a fini commerciali e ai lavori forzati.

Nel 2014, il governo di Haiti ha promulgato una nuova legge il traffico, che criminalizza il reclutamento, trasporto, il trasferimento o la ricezione di adulti e bambini, ma gli effetti sono molto deboli anche a causa delle poche risorse e della poca preparazione della polizia haitiana. Spesso la corruzione, l’ignoranza e la violenza interferiscono nei processi che dovrebbero aiutare a garantire i diritti dei più deboli.

Nonostante nel 1804 sia stato il primo paese americano ad abolire la schiavitù sembra che ad Haiti la strada da percorrere sia ancora molto lunga.

Per approfondire: Haiti: l’isola che non c’era, 2011, IBIS

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