Il 12 gennaio 2010 è la data che a Port-au-Prince segna un prima e un dopo. Prima miseria, povertà, violenza, colpi di stato, dopo miseria, povertà, violenza, democrazia zoppa, e milioni di dollari versati sull’isola e da questa usciti. Il terremoto che ha colpito la capitala haitiana, lascando 300.000 morti e un milione e mezzo di senza tetto è stato un gran affare per una parte della cooperazione internazionale e per un parte politica, e una grande tragedia, che si è sommata a molte altre, per il popolo haitiano.

Sono passati sei anni da quando la terra tremò, Gou­dou Gou­dou, e la situazione non è certo delle migliori, anzi.

Non molto è cambiato nell’ultimo anno. Qui raccontavo la situazione esattamente un anno fa.

Il disastro iniziò nei giorni successivi al terremoto quando la cooperazione internazionale decise di implementare la strategia dei campi profughi attraverso l’installazione di tende T-Shelter in aree lontano dalla città. Si crearono, quindi, ampie zone popolate senza servizi basici, con strutture temporali (perchè si pensava dovessero durare massimo tre mesi), lontane dalle zone in cui la gente viveva e in cui aveva relazioni famigliari, sociali ed economiche. Nei campi arrivarono oltre 1.500.000 persone. Le tende non sono pensate per resistere al clima tropicale (sono nate per le zone aride del sahara), non hanno intimità, non garantiscono sicurezza igienica.

Questo sistema fu sviluppato fino ad ottobre 2011, cioè quasi due anni dopo il terremoto. Quello che doveva essere una soluzione temporanea per massimo tre mesi, divenne la principale strategia di intervento, drenando molte risorse internazionali. La società haitiana aveva chiesto che anzichè queste costose, e fragili, strutture si intervenisse fornendo legno e lamiera alle famiglie colpite che, come han sempre fatto, si sarebbe ricostruita la propria casa. In due anni si costruirono 96.000 case temporanea, 4.600 nueve case e si ripararono solo 6.600 case delle otre 250.000 distrutte dal sisma.

Mentre il Segretario di Stato Hillary Clinton interveniva direttamente nel processo elettorale del 2011 promuovendo l’esclusione del candidato Celestin a favore del cantante Martelly (vedi qui), la popolazione, stanca della situazione dei campi, iniziò una autoricostruzione delle case, senza materiale, senza soldi e senza aiuto internazionale. Finalmente nel 2012 iniziò una politica di chiusura dei campi con il programma 16/6, ovvero spostare gli abitanti di 6 campi in 16 nuovi quartieri. Peccato che la maggior parte di questi fosse in zone ad altissimo rischio sismico.

Il sussidio per l’affitto è stato lo strumento più scelto dai beneficiari, ma senza una corretta espansione del patrimonio edilizio, ha promosso l’addensamento abitativo, in uno spazio in una stanza dove vivevano prima del terremoto 4 persone, ora ne vivono 6, si è verificato l’aumento dei prezzi di affitto, l’aumento di autocostruzione in zone ad alto rischio e l’ampliamento dell’area urbana della capitale. La precarietà in cui si sono trasferite molte delle famiglie che vivevano prima nei campi ha portato a definire che la delocalizzazione, come attuata a Port au Prince, può costituire una forma più sofisticata di sgombero forzato.

Vari studi internazionali sostengono che la capitale haitiana, dopo sei anni dal terremoto e 15 miliardi di dollari di aiuti internazionali è più impreparata ad un nuovo terremoto di come si trovava nel 2010. Cattive pratiche di costruzione, case in aree ad alto rischio, la mancanza di una rete sismica nel paese, e il processo di ricostruzione scoordinata e diretto verso soluzioni alternative lasciano, sei anni dopo, una città di variegate forme, instabile fragile, sostenuta dall’ingenio dei suoi abitanti e costruita da attori con interessi discordanti. A fine 2015 si calcola che più di 50.000 persone stiano ancora vivendo nelle residenze “temporanee”.

Gli scandali legati alla ricostruzione sono moltissimi. Quello di maggior impatto forse è stato quella della Croce Rossa statunitense. Inizialmente aveva previsto un investimento di 97 milioni di dollari per costruire 15.000 nuove case, poi ridotto nel 2013 a 59 milioni per 2.249. Allo stato attuale sono state costruite circa 900 case. Oppure il caso della fondazione Yele del popolare rapper Wyclef Jean che raccolse 16 milioni di dollari nel 2010 per spenderne 4 in spese di gestione e andare in liquidazione nel 2012.

Se vi fossero ancora dei dubbi su chi abbia tratto vantaggio dai milioni di dollari arrivati ad Haiti dopo il terremoto basta guardare questo grafico:

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Meno dell’un per cento dei soldi spesi dall’agenzia statunitense di cooperazione è stato gestito da organizzazioni i dal governo haitiano. Il resto è rimasto sotto il controllo di ONG statunitensi o direttamente di imprese private (come quelle che hanno gestito la rimozione delle macerie). I progetti finanziati sono stati, per esempio, lo studio per la creazione di un nuovo porto commerciale a nord di Haiti, costato 4 milioni e mezzo di dollari e mai consegnato.

Si dovrebbe anche parlare del colera, assente sull’isola da oltre un secolo e tornato con i caschi blu nepalesi (vedi articolo dedicato) che ancora oggi sta portando morti ad Haiti. Ricordiamoci che la prima conferenza internazionale per l’eliminazione del colera ad Haiti si è tenuta ad ottobre 2014, vuol dire 4 anni dopo la sua apparizione sull’isola. Si calcola che, con i giusti investimenti, ci vorranno 40 anni per eliminare questa malattia dall’isola.

colera

Nell’ultimo anno la situazione politica è degenerata. A gennaio Haiti si è trovata senza Parlamento dopo che è scaduto il mandato di quello in carica e che non sono state realizzate nuove elezioni. Il presidente Martelly ha deciso di proseguire governando per decreto e nominando come primo ministro (mai rettificato dal Parlamento) un personaggio coinvolto nel golpe di stato contro Aristide nel 2004: Evans Paul. Il processo elettorale, iniziato ad agosto, non si è ancora concluso e si sono registrati scontri e proteste per brogli ad ogni turno. Ad ottobre si è tenuto il primo turno per le elezioni presidenziali con oltre 50 candidati. I risultati sono stati contestati da tutti i partiti dell’opposizione e il ballottaggio tra il candidato presidenziale Moise e lo sfidante Celestin (quello già estromesso su pressione degli USA nel 2011) è stato rinviato dal 27 dicembre al prossimo 17 gennaio. I principali 8 partiti di opposizione hanno richiesto oggi la sospensione del processo elettorale e la nomina di un governo di transizione, dopo che un comitato appositamente nominato ha registrato brogli in più della metà dei seggi controllati, il report finale non è stato firmato dal rappresentante delle organizzazioni non governative, perché, a suo dire, si sarebbe dovuto procedere con il riconteggio globale delle schede.

Per capire un po’ la figura di Moise (mentre Celestin non ha ancora confermato l’intenzione di correre per il ballottaggio) basta sapere che nel 2014, ha lanciato una compagnia di espoetazioni di banane in joint venture con il governo in un terreno di circa 2.470 acri (1.000 ettari) a nord-est di Haiti, con un prestito di 6 milioni di dollari approvato dall’amministrazione Martelly. Moise si riferisce con orgoglio a se stesso con il nome di  “Neg Bannann” – Banana Man in creolo haitiano.

Nel frattempo sono avvenuti vari eventi molto discussi, tra cui l’approvazione di una legge sull’estrazione mineraria tanto cara alle multinazionali.

La situazione ambientale è il vero problema di Haiti. La deforestazione estrema ha esposto il paese ad inondazioni, uragani e frane. La cooperazione internazionale, con poche eccezioni, si è disinteressata a questa tematica non contribuendo ad uno sviluppo sostenibile del paese.

In sintesi, la situazione è ancora molto brutta, anche se i riflettori su queste terre si accendono solo il 12 gennaio, per un paio di servizi sull’anniversario del sisma, qualche foto sulla (mancata) ricostruzione e poi il nulla per un altro anno.

Per chi volesse approfondire continuo a suggerire il libro che ho curato con Helga: “Haiti: l’isola che non c’era“, IBIS edizioni. Dateci un’occhiata.

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